Adriana Chabod
Quaglieni: l’allievo fedele di Chabod

La mia testimonianza di amicizia e simpatia per il prof. Pier Franco Quaglieni è una moviola sugli ultimi anni, soprattutto è una rivisitazione delle circostanze che mi portarono alla conoscenza del professore. Attraverso quei ricordi io spero di fare emergere la mia stima per l’uomo di cultura e la mia profonda ammirazione per le sue altissime qualità morali e intellettuali.

Tutto capitò per caso.

Era il 28 marzo 2004, una domenica. Sfogliando un giornale mi capitò sotto gli occhi l’articolo Federico Chabod e la lezione di Benedetto Croce a firma di Pier Franco Quaglieni. Sussultai. Divorai immediatamente quel testo quasi senza apprezzarne la portata per l’eccessiva fretta nella lettura; poi lo rilessi e lo rilessi ancora, con calma, per assaporarne ogni parola e cogliere ogni sfumatura del ritratto dello zio Federico Chabod, il fratello maggiore di mio padre Renato, l’avvocato alpinista che emergeva riga dopo riga: prima lo storico rigoroso, «considerato come un classico della storiografia, il maggiore degli storici di scuola liberale, uno studioso che ha saputo proseguire in modo originale la lezione di Benedetto Croce» e poi l’uomo con il suo impegno civile e politico, quest’ultimo un tema svolto con gran maestria. Così scriveva Quaglieni: «Chabod non rimase chiuso nella torre d’avorio degli studiosi puri, ma fu tra gli estensori della Carta di Chivasso sul federalismo, partecipò alla Resistenza nella Valle d’Aosta, difese l’italianità della Valle dalle pretese francesi, fu il primo presidente del Consiglio regionale valdostano a fianco di un altro grande studioso come Alessandro Passerin d’Entrèves. La politica intesa nel senso più alto venne sentita dallo storico come un dovere civico nei momenti difficili, ma non fu mai praticata in modo settario. Anzi, passata la stagione dell’emergenza, sentì la necessità di ritirarsi nei suoi studi, accettando l’incarico di direttore a Napoli dell’Istituto per gli Studi Storici, fondato da Benedetto Croce. […] Questa lezione solitaria di Chabod appare oggi come un punto di riferimento importante per guardare oltre al secolo delle ideologie presuntuose e trionfanti, ricuperando quello che Omodeo chiamava il “senso della Storia”. Chabod è stato un grande intellettuale “disorganico” che seppe coniugare insieme politica e cultura, mantenendo costante la sua indipendenza critica. Un chierico che non ha tradito, un maestro che continua a insegnarci qualcosa». Allora considerai queste parole un lucidissimo omaggio allo zio, stringato, incisivo ma molto efficace, un testo lineare lontano dalla retorica di anniversari o altri eventi simbolo, una colta lettura domenicale. Oggi, dopo aver trascritto la parte conclusiva dell’articolo e averla riletta ancora, in questo momento così delicato e difficile per la vita del Paese riscontro in quel testo una sorprendente attualità e voglio leggervi quasi un invito alla pausa, alla riflessione e a far sì che, dopo la violenta campagna elettorale del 2013 e il risultato del voto, la politica si concentri solo su ciò che è l’interesse del Paese, il bene per la res publica e ritorni un dovere civico lontano dalle esasperazioni dei partiti e dei settarismi, libera dagli egoismi e dai tatticismi imposti dalle ideologie.

In quel marzo 2004, in tempi in cui la figura di Federico Chabod era ancora circondata dall’oblio, orgogliosa per quel riconoscimento alla mia famiglia, sentii il dovere di manifestare la mia gratitudine all’autore dell’articolo. Scrissi pertanto una lettera di ringraziamento al Professore che mi gratificò con una sorpresa. Egli mi inviò un pezzo uscito a Pasqua nel cui incipit, richiamando la mia missiva e la mia parentela con i fratelli Federico e Renato Chabod, affermava: «quella lettera ha esercitato su di me la stessa funzione della mitica madeleine di Marcel Proust». Quale onore! Non potevo credere ai miei occhi. A farmi volare alto almeno per una settimana non fu il vedermi citata sul giornale in fondo, non ci vuole molto per finire su un foglio stampato ma l’apprendere che la mia lettera aveva spalancato una finestra sugli anni giovanili del Professore, dando nuova vita a ricordi che lo riportavano nel salotto della villa eporediese di Arrigo Olivetti consentendogli così, attraverso lo spaccato di una società illuminata che soprattutto oggi non si può non rimpiangere, di introdurre anche i lettori in quel cenacolo che ospitava i “liberali del Canavese”: Edoardo Ruffini, Nina Ruffini, Nicolò Carandini, Leone Cattani… Da canavesana, per via della mia ascendenza materna, provai un vivo compiacimento per quel pezzo e forse anche un briciolo di invidia verso chi poteva scrivere “io c’ero” ed era disposto a condividere con il pubblico i suoi stati d’animo di un tempo lontano, che qui giova ricordare e che, nel mettere a fuoco la figura del giovane avido di imparare e apprendere, colpiscono per la modestia e l’umiltà. Scriveva allora il Professore:

«La frequentazione assidua di quella villa costituì la mia vera università. […] Tutti questi maestriamici ebbero su di me ventenne un ruolo che io posso paragonare solo a quello di mio padre. Neppure i miei migliori docenti all’Ateneo torinese Bobbio, Galante Garrone e Venturi hanno lasciato su di me quella traccia indelebile.

Da giovane studente appena uscito dal liceo dovetti subito fare i conti con la mia incultura e con i miei limiti vistosi. Quei “liberali del Canavese” mi hanno insegnato tutto senza volermi insegnare nulla perché mi trattarono quasi subito in modo amichevole. Io avrei voluto tacere e limitarmi ad imparare da loro, ma spesso mi capitò di poter partecipare attivamente ai loro discorsi, per quanto la mia immaturità non lo avrebbe consentito: oltre che dei signori, erano dei veri liberali. Gli incontri a Villa “Luisa”, il nome della straordinaria ed umilissima figlia di Arrigo Olivetti, ancora oggi rimpianta ad Ivrea per le sue opere caritative, costituivano un po’ quello che fu a Roma il salotto del “Mondo” di Pannunzio. Si respirava quella che Giacomo Debenedetti definiva “l’aria dei ventilati altipiani”, riferendosi ai suoi maestri. […] Il loro ed il mio era un liberalismo un po’ eretico, ma fermissimo su due punti: l’anticomunismo e l’antifascismo.

Se consideriamo che eravamo soprattutto negli anni successivi al ’68, l’aver avuto la fortuna di incontrare quei maestri che divennero anche amici, fu per me la cosa più importante della mia vita.

L’amicizia che coltivo con il figlio di Arrigo Olivetti, Camillo, rappresenta una linea di continuità con un mondo ormai definitivamente scomparso, ma di cui sento sempre di più la mancanza. Se la politica ha avuto una sua nobiltà, se la cultura ha saputo mantenere una sua dignitosa indipendenza, ciò è dovuto anche a quei “visi pallidi”, come li definivano sprezzantemente i comunisti, che seppero testimoniare, pagando con l’isolamento, il loro spirito liberale. Nel solco dei grandi liberali piemontesi da Cavour a Giolitti, da Einaudi a Soleri, da Brosio a Badini Confalonieri, da Villabruna ad Alpino.»

Impossibile e inopportuno un qualsiasi mio commento, rovinerei tutto.

Il seguito di questo debutto epistolare fu il susseguirsi di inviti a partecipare alle attività del Centro “Pannunzio” e di altri prestigiosi riconoscimenti per lo zio, un vero onore per la mia famiglia: nel 2010, nel cinquantesimo anniversario della morte dello zio, il Convegno su Federico Chabod nella sede storica dell’Università in via Po, poi il ciclo di lezioni “Federico Chabod Storico” tenuto dal prof. Guglielmo Gallino e le conferenze Chabod curate dallo stesso professor Quaglieni nella sede del Centro.

Nel frattempo, diventata socia del Centro, fui sempre lietissima di partecipare alle manifestazioni e agli incontri ogni volta che mi era possibile perché ogni attività ‘pannunziana’ – sia essa un convegno all’università o la memorabile lectio magistralis di Marcello Pera o l’altra lectio magistralis altrettanto straordinaria di Piero Ostellino oppure un evento al Circolo della Stampa oppure ancora una più modesta riunione in sede, in una parola sola tutto, ma proprio tutto – mi appaga molto. Più di una volta me ne sono chiesta il motivo, trovandone presto la risposta e senza troppa fatica: la presenza di Pier Franco Quaglieni, il liberale puro e duro, il direttore carismatico di cui in ogni frangente si avverte la grande statura. È indispensabile avere collaboratori fidati e preparati, ma se manca uno spirito forte a guidarli tutto crolla; l’anima trainante, l’ineguagliabile deus ex machina del Centro è il prof. Quaglieni, l’intellettuale brillante, lo studioso, l’uomo di cultura rigoroso, l’uomo tutto d’un pezzo che non ha mai paura di dire tutto ciò che pensa anche se non è politicamente corretto: una qualità non da poco nella società opportunista e ipocrita che ci circonda.

Pier Franco Quaglieni con Aldo Viglione
Pier Franco Quaglieni con Aldo Viglione, Presidente del Consiglio regionale del Piemonte e grande amico del direttore del Centro “Pannunzio”

Testimonianze su Pier Franco Quaglieni
per i suoi quarantacinque anni di direzione del Centro “Pannunzio”