Ricordo quella sera primaverile del ’68 come fosse ieri.
Palazzo Campana era chiuso, altre facoltà occupate. Per via Roma stava passando uno dei soliti cortei che quasi ogni giorno a quell’ora irrompevano nelle strade del centro con le voci giovani ed arrabbiate che rimbalzavano sulle stupite facciate dei palazzi, i commercianti che anticipavano di qualche mezz’ora la chiusura dei negozi, le scudisciate dei lunghi bastoni contro le saracinesche, le stanze del giornale piene di echi insoliti ed assordanti.
Davanti a me, una voce appena un po’ più alta di tono per vincere il fracasso e le urla, un giovanissimo professore parlava di primato della ragione e della cultura; parlava di Pannunzio – da pochissimo scomparso – quietamente, con nostalgia e commozione. E diceva: desideriamo che l’attività del Centro intitolato al suo nome sia degna della tolleranza, della libertà, dell’umanità e dello spirito laico che furono patrimonio de “Il Mondo”; intendiamo rispondere al bisogno di cultura della gente senza pregiudiziali ideologie, nel rispetto di ogni richiesta e di ogni convinzione; vogliamo aiutare i torinesi a ritrovarsi insieme negli interessi comuni, nelle loro legittime aspirazioni d’identità. Quel giovane era Pier Franco Quaglieni.