Marcello Pera
Pier Franco Quaglieni: un professore inattuale

Quella che segue è una breve testimonianza personale, accompagnata da una considerazione altrettanto personale. La testimonianza è sincera, la considerazione mi sembra vera.

Comincio da questa. Pier Franco Quaglieni è stato definito “professore di libertà”. Lo era quando insegnava al d’Azeglio di Torino, che lasciò perché assai poco in sintonia con il clima culturale di sinistra radicale che negli anni Sessanta penetrò anche quella scuola prestigiosa. Lo era quando promuoveva incontri e dibattiti con studiosi e personalità americane nella stagione del terrorismo. Lo era quando si occupava di storia risorgimentale in periodi in cui essa era una disciplina accademica coltivata solo da pochi specialisti accerchiati da una storiografia con opinioni ben diverse dalle sue sull’Italia, la sua unificazione, i suoi protagonisti delle origini. Direi che, professore di libertà, Quaglieni lo è sempre stato, in tutta la sua enorme attività di docente, studioso, saggista, giornalista, promotore e organizzatore di cultura. Può esserne fiero.

Purtroppo, temo che non possa esserne del tutto soddisfatto. Non perché i suoi libri non siano stati accolti, i suoi saggi discussi, i suoi tanti premi meritati, la sua figura apprezzata. Il punto è che la libertà di cui ha sempre parlato Quaglieni — quella dei suoi maestri: Cavour, Giolitti, Croce, Einaudi, e soprattutto Mario Pannunzio — quasi mai è stata la libertà che ha avuto corso in Italia. Vuoi perché, come al tempo dell’egemonia marxista, non era considerata “vera”, ma solo formale. Vuoi perché, come al tempo del Sessantotto, non era considerata autentica, ma “di classe” o “borghese”. Vuoi perché, come oggi, quella libertà è ancora ritenuta in gran sospetto.

Insomma, insegnando la libertà, credo che Pier Franco Quaglieni si sia quasi sempre trovato nella condizione di domandarsi se l’oggetto del suo insegnamento fosse un concetto autentico o spurio, fertile o arido, utile e da coltivare, oppure inadeguato e da cambiare, se non da abbandonare. Destino certamente paradossale: si può fare la storia e la filosofia di qualcosa che forse non esiste? Ma destino che tocca alle menti motivate e determinate da un forte ideale, quelle che non si arrendono a coltivare la cultura giusta, vellicare le persone giuste, dire le cose giuste, al momento giusto, per le ragioni giuste. Insomma, le menti che, viste da quelli che sono “giusti”, sembra che guardino all’indietro. Come quelli del “Mondo”. O come Francesco Barone, che lui ha molto apprezzato e voluto al “Pannunzio”, e io molto amato.

Non intendo con ciò dire che Quaglieni sia stato isolato o emarginato o negletto. Insignito di premi e onorificenze da parte di presidenti della Repubblica, di comitati di studiosi, di autorità nazionali e locali, Quaglieni è figura conosciuta, riconosciuta e apprezzata. Intendo piuttosto dire che è figura inattuale, nel senso di essere fuori dallo spirito del tempo. Un titolo di merito, senza dubbio, e meritato, perché lo spirito del tempo — dei tanti tempi che si sono succeduti in Italia — Quaglieni lo ha più spesso combattuto che invocato. Non per capriccio né per anticonformismo, ma per quel rigore intellettuale e morale che segna un uomo e uno studioso libero e liberale, convinto delle proprie idee e non incline a commerciarle.

Se la considerazione è giusta, allora la mia testimonianza è pertinente. Ho avuto il piacere di entrare in amicizia con Quaglieni negli ultimi anni, quando la sua personalità era completamente formata. E ho avuto la possibilità di osservare quanto essa, benché ben radicata nei suoi studi e nel suo carattere, rispondesse a quell’idea di libertà, aperta e disponibile, per la quale avevo da prima apprezzato i suoi lavori. Quando anche in Italia l’occasione si è presentata per discutere di nuovo di laicità e fede religiosa — un tema che si sa quanto animasse Mario Pannunzio — Quaglieni non si è chiuso in una fortezza che per lui sarebbe stata agevole. Non ha ripreso vecchi stereotipi contro i “collitorti”, non ha confuso l’anticlericalismo con l’anticristianesimo, non si è lasciato trascinare dal laicismo, che, in Italia come altrove, è l’ultima idea giusta degli intellettuali giusti. No, Quaglieni ha risposto assai diversamente, con discrezione ma con attenzione. Egli ha compreso che il nuovo tema non rientrava nelle otri vecchie. E soprattutto ha compreso la posta in gioco. Il problema non è se essere credenti, piuttosto il problema è se essere laici significhi avere un insieme di princìpi — a cominciare da quello della libertà — a cui la fede del credente dà un contributo sostanziale. Sì che il problema è se si possa salvare la nostra cultura e, più ancora, la nostra civiltà, senza sacrificare, anzi valorizzandola, l’eredità spirituale della tradizione cristiana.

Pier Franco Quaglieni non si è sottratto al dibattito neppure questa volta, su una questione che, oltre che la sua cultura, interroga la sua privata, intima coscienza. Purtroppo, a me sembra, è un professore inattuale anche in questo caso. Quest’Italia di oggi, dei diritti senza doveri, dei doveri senza responsabilità, della responsabilità senza esercizio, va in un’altra direzione. Trasforma la laicità, che è una conquista dello spirito di libertà, in laicismo, che è una rovina dell’ideologia illiberale, e considera il messaggio religioso con diffidenza, supponenza e talvolta con ostilità.

Siccome Pier Franco ama la cucina, c’incontreremo a una buona tavola. Per continuare anche questa conversazione fra amici.


Testimonianze su Pier Franco Quaglieni
per i suoi quarantacinque anni di direzione del Centro “Pannunzio”